12.12.2016 – IL MEMBRO DEL CDA DELLA SOCIETÀ IN HOUSE NON PUÒ ESSERE AMMINISTRATORE DELLA CONTROLLATA
IL MEMBRO DEL CDA DELLA SOCIETÀ IN HOUSE NON PUÒ ESSERE AMMINISTRATORE DELLA CONTROLLATA
Un consigliere che siede nel Cda di una società in house non può ricoprire l’incarico di amministratore di una società da essa controllata. Questo il principio affermato dall’Anac con la delibera n. 1103/2016, con la conseguenza che il prefigurato incarico permane inconferibile a prescindere dalle motivazioni di pubblico interesse che tale scelta di governance societaria potrebbe offrire, come il risparmio della spesa o l’incremento dell’efficienza gestionale. Ad avviso dell’Autorità, infatti, il conferimento di quell’incarico viola un divieto normativo ispirato all’esigenza di salvaguardare la trasparenza e prevenire potenziali conflitti di interesse nel governo della cosa pubblica.
Il caso di specie Nel caso di specie, il quesito è posto dal presidente di una società in house per la gestione di servizi pubblici locali, partecipata da più enti locali con popolazione superiore a 15mila abitanti, che chiede lumi in ordine alla possibilità di nominare un consigliere del proprio Cda quale amministratore unico di una partecipata di secondo livello, e rispetto alla quale si prospetta una situazione di controllo ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile.
Il parere dell’Authority L’Autorità rileva in primo luogo che le società in house sono riconducibili, per definizione, alla categoria degli «enti di diritto privato in controllo pubblico», ma del resto è pacifico che, secondo l’articolo 1, lettera c) del Dlgs 39/2013, sono soggette alla disciplina in tema di inconferibilità e incompatibilità degli incarichi le società che svolgono funzioni amministrative, nonché attività di produzione di beni e servizi a favore della Pa o di gestione di servizi pubblici. Tenuto conto di ciò, l’Anac osserva che la norma ostativa al conferimento dell’incarico in esame è l’articolo 7, comma 2, lettera d) del decreto secondo cui «a coloro che siano stati presidente o amministratore delegato di enti di diritto privato in controllo pubblico da parte di province, comuni e loro forme associative della stessa regione, non possono essere conferiti […] gli incarichi di amministratore di ente di diritto privato in controllo pubblico da parte di una provincia, di un comune con popolazione superiore a 15 mila abitanti o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione». Qui si apre tuttavia un ulteriore distinguo, consistente nel fatto che il consigliere del Cda destinato (in ipotesi) ad amministrare la società controllata non è cessato dalla carica secondo quanto prevede il suddetto disposto, ma risulta attualmente titolare della relativa posizione. Per sgombrare il campo da ogni dubbio l’Autorità evoca il proprio orientamento n. 11/2015, ove si afferma che «le situazioni di inconferibilità previste nell’articolo 7 del dlgs 39/2013, nei confronti di coloro che nell’anno o nei due anni precedenti hanno ricoperto le cariche politiche e gli incarichi ivi indicati, vanno equiparate, ai fini del dlgs 39/2013, coloro che attualmente ricoprono tali ruoli. Pertanto, nel caso in cui il presidente o amministratore delegato di un ente di diritto privato in controllo pubblico da parte di province, comuni e loro forme associate, assuma anche l’incarico di amministratore di un ente di diritto privato in controllo pubblico da parte delle predette amministrazioni, sussiste la causa di inconferibilità prevista dall’articolo 7, comma 2, lettera d), del dlgs 39/2013». Il rigore interpretativo del disposto, quindi, da un lato induce ad assoggettare alla disciplina in tema di inconferibilità non solo la Pa ma anche le sue articolazioni organizzative come le società in house, e dall’altro estende la previsione del divieto ivi previsto anche nei confronti degli amministratori attualmente in carica. È appena il caso di aggiungere che, trattandosi di un caso di inconferibilità e non di incompatibilità dell’incarico, le dimissioni dell’interessato non varrebbero a sanare la violazione del divieto, ma ricondurrebbero anzi la fattispecie al tenore letterale del disposto, che contempla appunto un divieto riferito agli amministratori cessati dalla carica.