IL COMUNE PUÒ DICHIARARE L’INEFFICACIA DELL’AFFIDAMENTO SENZA GARA PER IL SERVIZIO DI ILLUMINAZIONE PUBBLICA

IL COMUNE PUÒ DICHIARARE L’INEFFICACIA DELL’AFFIDAMENTO SENZA GARA PER IL SERVIZIO DI ILLUMINAZIONE PUBBLICA

È legittima la deliberazione del Consiglio comunale che dichiara la cessazione dell’efficacia della convenzione stipulata dall’ente con una società del gruppo Enel, disponendo la prosecuzione della gestione del servizio di illuminazione pubblica fino all’adeguamento del modello gestionale ai requisiti previsti dalla normativa europea. Questo il principio affermato dal Tar Lombardia con l’ordinanza n. 509/2016che conferma la correttezza dell’operato dell’ente locale.
Nel caso di specie, sostiene il Tar, l’amministrazione ha legittimamente ravvisato i presupposti per dichiarare la decadenza della convenzione stipulata nel 2009 con il gestore del servizio di illuminazione pubblica, in quanto a tale data la norma che legittimava l’affidamento diretto del servizio – ossia il comma 14 dell’articolo 113 del Tuel, introdotto dalla legge 448/2001 – aveva ormai cessato di produrre i propri effetti.
L’asserzione dei giudici merita qualche chiarimento, perché in realtà il comma 14 è stato formalmente abrogato dall’articolo 12, comma 1, del Dpr 168/2010, per cui si potrebbe sostenere che nell’anno 2009 il disposto fosse ancora in vigore.
La questione è dirimente ai fini del contenzioso in esame, dacché il comma 14 stabiliva che «se le reti, gli impianti e le altre dotazioni patrimoniali per la gestione dei servizi (…) sono di proprietà di soggetti diversi dagli enti locali, questi possono essere autorizzati a gestire i servizi o loro segmenti» a condizione che siano rispettati standard qualitativi, quantitativi, ambientali, di equa distribuzione sul territorio e siano praticate tariffe non superiori alla media regionale, e salvo che le discipline di settore o le relative Autorità dispongano diversamente.
Il precedente giurisprudenziale 
Nel caso in esame il Tar non si sofferma più di tanto sull’argomento, ma fa rinvio allasentenza n. 2535/2016 del Consiglio di Stato, Sezione V, che motiva accuratamente la posizione sostenuta dai giudici amministrativi.
Il ragionamento prende le mosse dal fatto che l’articolo 23-bis, comma 11, del Dl 112/2008 convertito dalla legge 133/2008, disponeva che «l’articolo 113 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive modificazioni, è abrogato nelle parti incompatibili con le disposizioni di cui al presente articolo». Ciò significa, ad avviso di Palazzo Spada, che le disposizioni incompatibili con la novella legislativa del 2008 – ivi compreso il comma 14 dell’articolo 113 del Tuel – erano state abrogate già a far tempo dall’entrata in vigore del Dl 112/2008, e “non rileva in senso contrario la formulazione (invero perplessa) di cui all’articolo 12, comma 1, lettera a) del Dpr 168/2010, alla quale deve essere riconosciuta valenza meramente ricognitiva di un’abrogazione già aliunde verificatasi”.
L’impatto della decisione 
La valenza ricognitiva dell’abrogazione disposta dal Dpr 168/2010 consente pertanto al Tar di affermare che già nel 2009 non sussistevano i presupposti legittimanti l’affidamento diretto del servizio di illuminazione pubblica e della gestione dei relativi impianti. Al di là delle argomentazioni di diritto ora esposte, non c’è dubbio che l’ordinanza del Tar Lombardia ha un forte impatto per quanto riguarda le gestione delle infrastrutture e delle reti destinate a un servizio pubblico locale di estrema importanza per la vita sociale del territorio. Si osserva che, in coerenza con l’impostazione giuridica del giudice amministrativo, già con deliberazione n. 110/2012 Avcpsosteneva che il servizio di pubblica illuminazione è un servizio pubblico locale la cui gestione deve essere affidata con procedure a evidenza pubblica conformi al diritto comunitario e al codice dei contratti, escludendo qualsiasi forma di proroga tacita e di rinnovo degli affidamenti in corso. In questo scenario, come si vede, i Comuni sono chiamati ad assumere un ruolo di primo piano con notevoli responsabilità gestionali, stante la complessità degli adempimenti tecnico-amministrativi finalizzati a determinare il valore degli impianti in mano ai privati e ad acquisire la proprietà delle reti, con l’obiettivo, in ultima analisi, di evitare il consolidamento di situazioni monopolistiche nel settore.
stituzionale. 
Affidamenti con gara e senza 
Sono interessanti alcuni cambiamenti, ma anche delle mancate modifiche. Tra queste ultime spicca il non accoglimento della richiesta di differenziare il trattamento delle società che hanno conseguito un affidamento con gara e quelle in house. 
È un tema delicatissimo, uno sui quali si gioca la scommessa di un contenimento delle partecipate che non sia motivato solo da ragioni ideologiche o di finanza pubblica, ma anche a fondamento industriale. 
Il ricorso alle gare non è la panacea di tutti i mali e presenta limiti e difficoltà evidenti. Indubbiamente, però, la procedura competitiva, quale misura di individuazione di un prezzo equo di mercato, può essere stimolo e motivazione a perseguire sforzi concreti di efficienza e di riassetto del sistema. Ed è comunque una richiesta forte che proviene dal legislatore comunitario e nazionale. 
Ad oggi, il ricorso alle gare è assolutamente residuale: secondo l’ultimo Rapporto sulle partecipazioni detenute dalle amministrazioni pubbliche del ministero dell’Economia, infatti, «sono stati rilevati circa 11.100 affidamenti di servizi alle società partecipate. In circa 10.500 casi il servizio è stato affidato direttamente (ovvero senza procedure a evidenza pubblica) dall’amministrazione alla partecipata». 
Se si vuole cambiare rotta, però, pensare che bastino i divieti è pura illusione. Servono invece incentivi concreti e imporre alle società che accettano la sfida della gara i medesimi vincoli che hanno coloro che non lo fanno, certo non va nella direzione giusta.
Il personale 
Importante, in questo quadro, anche il tema del personale. Da questo punto di vista il testo merita delle correzioni, forse solo formali. 
Iniziamo dalle modifiche introdotte all’articolo 25, che riguarda le eccedenze di personale. Anzitutto il comma 2 affida alle Regioni, per pochi mesi, il ruolo di agevolare la mobilità nel proprio territorio. Ma su questo la norma sembra contraddittoria. Da una parte il comma 8 dell’articolo 20 sembra confermare gli strumenti previsti dall’articolo 1, commi 563 e seguenti, della legge 147/2013. Per contro, però, il successivo articolo 28, comma 1, lettera t) abroga esplicitamente questa procedura. Per evitare equivoci, pertanto, sarebbe opportuno precisare che, almeno transitoriamente, questa norma può essere utilizzata, altrimenti non si vede quali siano gli strumenti normativi che le Regioni possano utilizzare per facilitare i processi di ricollocamento del personale, vista la necessità di procedere, in così breve arco di tempo, non solo a individuare dei fabbisogni ma perfino a effettuare delle selezioni pubbliche del personale. Questo, a meno che non si voglia dire, ma anche in tale caso sarebbe necessaria una puntualizzazione, che le Regioni possano emanare norme in materia. 
Superfluo, ancora, il comma 7 che, a fronte di una disposizione che riguarda esplicitamente le sole società a controllo pubblico (comma1), vuole escludere soggetti già esclusi, ovvero «le società a prevalente capitale privato di cui all’articolo 17 che producono servizi di interesse generale e che nei tre esercizi precedenti abbiano prodotto un risultato positivo». 
È forse inutile sottolineare che la certezza delle norme che riguardano il destino dei dipendenti è cruciale per un processo di razionalizzazione che ad oggi ha trovato il primo ostacolo proprio su questi temi, sui quali la mancanza di chiarezza può generare contenziosi e preoccupazioni altrimenti evitabili.